NELL' INFERNO

«Un freddo intenso gli faceva battere i denti, insonne, si girava e rigirava nel letto, mentre ascoltava i lugubri rintocchi di un campanile vicino. In un attimo di tregua concesso da un breve sogno gli appariva un paesaggio idilliaco nel quale avrebbe voluto sostare per sempre. Era solo un’illusione, però, che svaniva nel risveglio angoscioso durante il quale s’udiva un rumore ossessivo, un misterioso respiro di cui non comprendeva la provenienza.»
Magda Vigilante

Autore: Arturo Onofri
Collana: Arcadia
Pagine: 74
Lingua: italiano
Anno: ©2021 PandiLettere Edizioni
ISBN: 978-88-945604-7-3
Prezzo di copertina: € 10,00


Tra i grandi poeti italiani del primo Novecento, età d’oro della nostra poesia, c’è sicuramente Arturo Onofri. È certamente meno conosciuto di Gozzano Ungaretti Sbarbaro Montale Corazzini Saba Cardarelli Campana, ma fu allora importante e molto considerato, come ci appare anche adesso se lo rileggiamo. È ripubblicato sparso a pezzetti da piccoli editori, ma con una notevole vivacità, che testimonia un discreto interesse, e proprio di una di queste pubblicazioni voglio parlarvi qui, uscita recentemente per l’editore PandiLettere di Roma, città natale di Onofri, e curata da Magda Vigilante che di Onofri è studiosa attenta da sempre, con importanti contributi critici e filologici.
Il libro è particolarmente interessante perché si tratta di testi inediti che la Vigilante ha scovato nell’Archivio Onofri della Biblioteca Centrale di Roma, e non si tratta di poesia come ci aspetteremmo, ma di racconti. Tre racconti giovanili scritti tra il 1907 e il 1910, dunque tra i 22 e i 25 anni, essendo Onofri nato nel 1885.
Cerchiamo di capire prima però perché questo autore è stato trascurato, perché non è stato ripubblicato da grandi editori, perché non c’è un oscar di lui, e perché in questo tempo nostro torna a parlarci in profondità, ritorna attuale e vivo.
In tutti i grandi poeti sopra nominati, chi in un modo chi in un altro, anche per opposizione a D’Annunzio, ma non solo, c’è un “abbassamento”. Sul piano linguistico, del contenuto, su tutti i piani. Anche in Campana c’è un abbassamento? Sì, perché la lingua è alta (carducciano-dannunziana), alto il tono di canto ecc., ma è il personaggio poeta che è un girovago quasi barbone, riprendendo il maledettismo rimbaudiano. Degli altri poi l’abbassamento e l’antidannunzianesimo è facile trovarlo: vanno tutti verso una lingua piana, non aulica, verso un canto dimesso. Il personaggio poeta poi di Gozzano perde pure la maiuscola e lo spazio tra nome e cognome, diventa guidogozzano, Corazzini è un semplice fanciullo che piange, Montale vive al cinque per cento ecc. Ebbene Onofri no, lui vola alto, è l’unico che vola alto.
L’uomo piccolo e fragile, sperso, della società di massa, il soldato Ungaretti tra la massa dei soldati semplici che cadono come le mosche, Sbarbaro che cammina di notte sui marciapiedi della città massificata e sente rintronare sordo il selciato sotto i suoi piedi, non lo vediamo in Onofri.
Il male di vivere, la “Lebenswelt”, la “Waste Land” non ce la rappresenta lui, come fanno tutti, il mondo abbrutito della spersonalizzazione della società e della guerra di massa non lo vediamo. O meglio lo intravediamo solo in comparazione a quanto è forte e urgente la spinta di fuga della liberazione. Noi vediamo solo questo razzo che sale, il mondo sotto non lo vediamo. O meglio il mondo lo vediamo ma nei paesaggi armonici e musicali della natura, o nel paesaggio del viso e del corpo femminile, angelico, paesaggi che sono basi di lancio del razzo che si inciela. Torna in lui dopo seicento anni, dopo Leopardi e Pascoli, il canto verticale della donna angelo, che nessuno nel ‘900 azzarda, nessuno potrebbe, solo lui.
Non è solo un rifarsi al Dolce Stil Nuovo (nell’età d’oro primo-novecentesca inevitabilmente anche altri ci si rifanno, a modo loro, come Montale, Caproni, Penna), dietro Onofri c’è anche la grande linea tedesca che va da Goethe a Steiner, e passa per Novalis e Holderlin, che è un neoumanesimo moderno, la fede in un uomo nuovo che riabbraccia la natura, e, lui dentro di lei, la guida verso un futuro luminoso.
In una prosa-poesia da “Le trombe d’argento” del ’24, troviamo queste parole: “giacché un abbraccio tacito e immenso, un abbraccio al mondo, / è l’ultimo gesto appreso dal tuo dolore / quando hai scoperto che la tua pena è soltanto una pena d’amore”. Il male di vivere, lo spleen, l’angoscia esistenziale (e allontanandoci da riferimenti a un tempo storico preciso diciamo pure l’eterna caducità, la mortalità, l’assurdità dell’essere e del finire) non sono qualcosa che ti strozza e ti annichilisce, ma semplici “pene d’amore”. E anche in questa parola “pena”, così antica e così bella, che ha percorso e intriso di sé la nostra letteratura e la nostra musica, ritroviamo il senso profondo di questa meravigliosa illuminazione.
E la poesia d’amore, che in tutto il Novecento è in sordina, marginalizzata e ridicolizzata, in Onofri è il centro di tutto. Tutte le nostre pene non sono altro che pene d’amore.
E veniamo a questi racconti. Ecco, anche in questi testi giovanili, ritroviamo il tema della liberazione, della rinascita, la necessità di un percorso radicale, controcorrente, di salvezza. Ritroviamo la “diversità” di Onofri.
Il primo è una favoletta-apologo sull’arte nel tempo della modernità. Le Idee (con la maiuscola) sono fuggite, e la creta, ovvero la terra, il mondo, non è più molle del loro pianto. Ma l’artista ha ormai un “pollice esercitato” (il titolo del raccontino), e può modellare anche la terra dura, un mondo diventato duro. C’è qui già l’idea titanica di nuovo rinascimento dell’Onofri maturo (il suo saggio più importante, del ’25, si intitola Nuovo Rinascimento come arte dell’io),
Nel secondo (I due) il protagonista rivede un amico, e accanto a lui un’ombra che si rivela essere il vero io dell’amico. L’ombra, che ha qui un valore positivo anziché negativo (e la Vigilante lo nota e lo sottolinea nella ricca e attenta prefazione che precede i racconti), ha i capelli arruffati e stringe “contro il petto un fascio di ginestre, di bocche di leone e altri fiori campestri”: anche qui vediamo il nuovo uomo riconciliato con il cosmo e con la natura. È come se l’amico dicesse al protagonista, e al lettore: dobbiamo imparare a conoscerlo.
Il terzo, più lungo, Nell’Inferno, che dà giustamente il titolo a questa pubblicazione, è il racconto di un incubo, “il più angoscioso” dei suoi, come ci riferisce all’inizio l’autore, in cui troviamo rappresentato tutto il male che Onofri, andando controcorrente, ha scelto di non rappresentare, ma di superare. Siamo al punto iniziale, l’ora zero, la terra (anzi il fango) da cui parte il suo volo verticale a razzo. Un volo di ritorno alla natura, attraverso un grande fuoco amoroso.
— Claudio Damiani
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Biografia

Arturo Onofri nacque a Roma il 15 settembre 1885 da padre romano, Vincenzo, e da madre di origine polacca, Beatrice Shreider. Nel 1907 iniziò la sua attività poetica con il volume Liriche cui seguirono le raccolte Poemi tragici (1908) e Canti delle oasi (1909). In queste prime prove poetiche sono facilmente riconoscibili i modelli letterari dannunziani, pascoliani e crepuscolari, ma già si rivela la tensione verso il trascendente ricercato nello slancio di liberazione dell’anima dalla realtà terrena o nella fusione panica con l’universo. Tra il 1910 e il 1917 collaborò con poesie, articoli critici e prose liriche alle maggiori riviste del tempo come «La Nuova Antologia», «La Diana», «Il Popolo romano», «La Voce» dove apparvero i suoi saggi critici sul Pascoli. Nel gennaio del 1912 fondò con Umberto Fracchia la rivista «Lirica» il cui programma rivendicava la completa libertà dell'artista nella scelta dei mezzi espressivi. Nello stesso anno pubblicò il racconto Disamore, mentre nel 1913 riunì poesie vecchie e nuove nel volume Liriche, considerando conclusa una fase significativa della sua produzione poetica. Inaugurò un nuovo corso poetico nel volume Orchestrine, edito nel 1917, che presenta una serie di “frammenti”, brevi prose liriche in grado di registrare in modo immediato le sensazioni provate dall’artista di fronte alla realtà umana e naturale. Nello stesso anno conobbe l’antroposofia di Rudolf Steiner alla quale in seguito aderì, ricavandone motivo d’ispirazione per le sue successive opere poetiche. Con Arioso del 1921 celebrò la serenità famigliare raggiunta dopo il matrimonio con Bice Sinibaldi e la nascita dei figli Fabrizio e Giorgio. Nel 1924 pubblicò la raccolta di prose liriche scandite in versetti, Le trombe d'argento e il volume Riccardo Wagner, Tristano e Isotta. Guida attraverso il poema e la musica. Nel volume teorico Nuovo Rinascimento come arte dell'io (1925) elaborò una concezione dell’arte e della poesia, in parte derivata dall’antroposofia, come immagine dello Spirito che unisce tutti gli esseri del cosmo. Per attuare la nuova poesia iniziò a comporre il ciclo lirico della Terrestrità del sole, i cui primi due volumi Terrestrità del sole e Vincere il drago! furono pubblicati rispettivamente nel 1927 e nel 1928, mentre uscirono postumi Simili a melodie rapprese in mondo (1929), Zolla ritorna cosmo (1930), Suoni del Gral (1932) e Aprirsi fiore (1935). Morì a Roma il 25 dicembre 1928.

ArcadiaLara Di Carlo